Il termine agorafobia significa letteralmente “paura della piazza” e, di conseguenza, paura degli spazi aperti. Il significato etimologico della parola viene poi esteso nella pratica clinica a tutte le situazioni in cui il soggetto teme di sentirsi male lontano da casa, circostanze in cui solo la propria abitazione viene vissuta come rifugio e luogo sicuro.
Il soggetto colpito da agorafobia infatti non teme solo i luoghi aperti, ma anche di essere in mezzo alla folla: fare la coda davanti ad uno sportello, andare allo stadio, al cinema, al ristorante o al supermercato per queste persone sono situazioni altamente ansiogene. Stessa cosa dicasi per quanto riguarda il viaggiare in treno, in automobile o in aereo oppure per la frequentazione dello studio del dentista o del negozio del parrucchiere.
Certo sarebbe difficile definire queste ultime attività come collocate in spazi aperti, ragion per cui due sono i poli rilevanti che emergono.
Primo elemento è che riferendosi al fattore “folla”, si deduce che uno spazio di per sé neutro è come se acquistasse una valenza spaventosa per il solo fatto di essere popolato da gente (non a caso i pazienti riferiscono un alleviamento della pena nel trovarsi, per esempio, in un ristorante poco frequentato o in un treno poco affollato).
Il secondo fattore è che i luoghi raccolti, in teoria più rassicuranti per l’agorafobico, sono in realtà altrettanto temuti, qualora impediscano all’individuo, in caso di malore, di fuggire per rifugiarsi a casa il più presto possibile.
In questo senso sarà opportuno ridefinire l’agorafobia come la paura di situazioni senza via d’uscita, ovvero senza possibilità di fuga rapida e lesto ritorno a casa di fronte ad una minaccia di morte.
Cosa teme che accada l’agorafobico in queste aree così ben delineate nella loro pericolosità?
Di perdere il controllo. Di sentirsi male. Di svenire. Di essere colpiti da un infarto cardiaco e di rimanere privi di aiuto in pubblico.
In poche parole teme di morire, anche se a volte la paura della morte imminente è un timore che rimane sotto il livello di coscienza, lasciando intravedere soltanto una generica sensazione, confusa e angosciante, di allarme e pericolo.
Quanto più è prossima la sensazione di venir meno, tanto più il soggetto tende al panico, accompagnato da una vera e propria “tempesta somatica” (sudorazione, palpitazione, senso di soffocamento, vertigine, tremore, sentimento di irrealtà).
Il soggetto per far fronte al suo problema attuerà a questo punto due tipi di strategie: